Ci sono battaglie passate alla
storia per la loro crudezza, per l’equilibrio che le ha caratterizzate o per la
vittoria schiacciante di una delle parti in causa. Esiste però una battaglia
che è passata alla storia per non essere mai stata svolta: quella di Città del
Messico del 7 novembre 1993. Da un lato si schierava Scott Russell,
ventinovenne americano alla guida della Kawasaki ZXR750, dall’altro l’inglese
Carl Fogarty, di un anno più giovane, alla guida della gloriosa Ducati 888,
moto all’ultima gara della sua onorata carriera, indietro di ventinove punti in
classifica.
In palio, il titolo mondiale delle Superbike. Attorno a loro, un corollario di altri 28 piloti di varia provenienza e professionalità, molti dei quali locali, a riempire uno schieramento che altrimenti sarebbe stato molto scarno, visto che gran parte dei privati europei non potè farsi carico dell’onerosa trasferta tropicale. Come teatro dell’ultima battaglia fu scelto il circuito dedicato ai fratelli Rodriguez, nel pieno centro di Città del Messico.
In palio, il titolo mondiale delle Superbike. Attorno a loro, un corollario di altri 28 piloti di varia provenienza e professionalità, molti dei quali locali, a riempire uno schieramento che altrimenti sarebbe stato molto scarno, visto che gran parte dei privati europei non potè farsi carico dell’onerosa trasferta tropicale. Come teatro dell’ultima battaglia fu scelto il circuito dedicato ai fratelli Rodriguez, nel pieno centro di Città del Messico.
La Superbike debuttava così in centro America, area da sempre snobbata
dal motociclismo mondiale, che anzi era sempre stato piuttosto restio ad
allontanarsi dal vecchio continente. In realtà, il mondiale delle derivate di
serie era sempre stato attratto dalle mete esotiche: l’Australia era stata
scoperta prima che ci approdasse il motomondiale e lo stesso destino era
toccato alla Malesia, mentre la Nuova Zelanda restò un esperimento isolato,
seppur lungo alcune stagioni, al pari del Canada, che per due volte vide i
centauri sfidarsi in quel luna park fatiscente del circuito di Mosport Park. Ma
il Messico del 1993 era un’altra cosa.
Era innanzitutto un paese che si era
ritrovato nel giro di pochi mesi escluso dall’elite dello sport motoristico,
truffato dal fantomatico Gonzalez Luna, che aveva fatto sparire svariati
milioni di finanziamento statale per un team di F.1 mai nato, cancellato come
appuntamento prima dal calendario del mondiale endurance e successivamente dal
mondiale di Formula 1. Il circuito, un tempo chiamato Magdalena Mixhuca, era
stato rinnovato nel 1985 per permettere il ritorno della massima serie, ma da
quel momento era stato progressivamente trascurato fino a non essere più
rispondente agli standard sempre più esigenti della F.1 e quindi era stato
fatto fuori dal calendario. Per il debutto delle superbike, si era scelto di
gareggiare su una configurazione del tracciato leggermente più corta, lunga
quattro chilometri tondi e priva del tratto più a sud. Il tempo era afoso ed
umido come da copione, ma il cielo non sembrava poter giocare brutti scherzi
come spesso accade nelle zone tropicali. In pratica, era tutto pronto perché la
battaglia iniziasse, ma già dai primi minuti si era subito capito che qualcosa
non andava.
L’asfalto era quello che era, scivoloso e poco abrasivo oltre che
vecchio, le via di fuga scarse e mal curate, con guardrail scoperti appena
fuori dalla traiettoria ed erba altissima che non veniva tosata chissà da
quanto. I malumori cominciavano a serpeggiare tra i piloti, ma nessuno
immaginava quello che stava per accadere. Il circuito “Hermanos Rodriguez” era
ed è parte di uno sterminato complesso polisportivo nel centro della più
congestionata metropoli al mondo ed ospita al suo interno campi di baseball,
calcio, tennis e molto altro ancora.
Così, durante la prima sessione di libere,
più di una volta i piloti furono costretti a fare lo slalom tra i palloni e le
palline persi dai vari campi in cui si continuava liberamente a giocare malgrado
l’evento motoristico in corso. L’assenza di controlli ed i varchi lasciati
aperti ed incustoditi portarono addirittura ad un’invasione di cani, che
entrarono liberamente in pista mettendo in serissimo pericolo l’incolumità dei
centauri in pista. Gli animi erano caldissimi e furono placati solo
momentaneamente, ma ormai la misura era colma.
Quando Scott Russell, in pieno
rettilineo del traguardo, si vide attraversare la strada da un furgoncino che
procedeva indisturbato perpendicolarmente al senso di marcia, la bomba scoppiò.
L’americano accostò subito gesticolando ed inveendo contro i commissari che
avevano permesso una tale assurdità e poi tornò ai box per non uscirne più, e
con lui quasi tutti i piloti. Ci fu un vano tentativo di organizzare delle qualifiche-farsa,
con soli sei piloti in pista, ma poi il fronte si compattò ed i centauri incrociarono
le braccia decretando di fatto l’annullamento dell’evento.
Fra loro, anche Carl
Fogarty, che così accettava coscientemente di perdere il mondiale, perché aveva
capito che quell’ultima battaglia non andava disputata, altrimenti avrebbero
perso tutti.
![]() |
| Scott Russell sulla Kawasaki ZXR750 |
The BackMarkers

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